Chi non conosce Michael Jordan?
Michael Jeffrey Jordan appartiene a quella categoria di personaggi così famosi che non necessitano di presentazione, tipo Lionel Messi o un altro MJ che però faceva il musicista pop. Persino i giovanissimi, che non lo hanno mai visto giocare a basket, lo conoscono comunque grazie alle scarpe Nike e più di recente il documentario Netflix “The last dance”.
Il documentario, giustamente, non trascura nessuno dei successi ottenuti da Jordan nei suoi primi 14 anni di carriera giocando coi Chicago Bulls. La storia si sofferma sui risultati di squadra, in particolare i 6 titoli di Campioni NBA nell’arco di soli 8 anni, ma non dimentica di menzionare anche i riconoscimenti individuali, come ad esempio:
- 5 premi MVP (Most Valuable Player) nella stagione regolare;
- 6 MVP nelle finali per il titolo nazionale;
- 14 selezioni per l’All-Star Game;
- media di punti per partita (30.12) più alta di sempre;
- e tanti altri record…
Nella biografia non mancano però gli insuccessi, soprattutto all’inizio della sua carriera: dati alla mano, possiamo dire che la sua è stata una partenza in salita.
Nei primi tre anni di militanza nei Bulls, la squadra ha una percentuale di sconfitte superiore al 50% e non riesce ad andare oltre al primo turno nelle partite di playoffs di fine stagione che servono ad assegnare il titolo nazionale. Dopo questa fase di mediocrità, le cose iniziano a migliorare ma i primi sogni di gloria si infrangono contro una squadra più forte (Detroit Pistons) che li sconfigge ai playoffs per tre anni consecutivi. In retrospettiva, però, si vede chiaramente come questi fallimenti possano essere considerati come “dolori della crescita” di una squadra – e del suo giocatore di punta – ancora in formazione.
Il miglior giocatore, in costante fallimento
Quello che mi sembra più interessante è invece la visione del legame tra vittoria e sconfitta data da Jordan quando è già un campione affermato. L’occasione è uno spot pubblicitario della Nike, quindi ci sono ovviamente delle esigenze commerciali di “drammatizzazione”. Come voce fuori campo, MJ descrive la sua filosofia sportiva:
I've missed more than 9000 shots in my career. I've lost almost 300 games. 26 times, I've been trusted to take the game winning shot and missed. I've failed over and over and over again in my life. And that is why I succeed.
Ho mancato più di 9000 tiri nella mia carriera. Ho perso quasi 300 partite. Per 26 volte, mi è stata data fiducia per prendermi il tiro della vittoria e ho sbagliato. Ho fallito ancora e ancora e ancora nella mia vita. Ed è per questo che ho avuto successo.Michael Jordan
Un modello per noi "comuni mortali" ?
Gli standard di Michael Jordan possono sembrare inavvicinabili, anzi senza dubbio lo sono! Per chi non guadagna milioni di dollari tirando una palla nel canestro davanti a migliaia di spettatori, potrebbe risultare difficile confrontarsi o comunque ispirarsi a lui come modello di vita. Ciononostante possiamo ricavarne molto se estrapoliamo il messaggio fuori dal contesto del basket USA, osservando vari aspetti:
- La riflessione di Jordan sui propri limiti sorprende chi lo conosce (da dichiarazioni e interviste) per non essere esattamente una persona umile.
- I fallimenti non lo perseguitano, ma lo motivano ulteriormente.
- Non si tratta solo di un ostacolo iniziale da cui poi inizia una sbalorditiva carriera, ma di una serie di inciampi e cadute lungo tutto il percorso.
- Sono comunque una cosa maledettamente seria.
In pratica?
Tutto ciò può essere trasferito in una serie di ottimi consigli da applicare nella vita quotidiana, in particolare con riferimento al nostro percorso lavorativo o scolastico.
Tenere un diario degli errori
Non di ogni singolo sbaglio che combiniamo durante la giornata, ma di quelli che sul momento ci sono sembrati più salienti, con l’impatto emotivo più forte. Magari col senno di poi ci renderemo conto che non erano così gravi, o comunque non da doverci perdere il sonno. Questo a mio avviso è particolarmente vero per innumerevoli situazioni scolastiche che generano in noi ansia e preoccupazione, rendendo ancora più difficile la risoluzione del problema. In ogni caso, il diario sarà utile per tenere traccia delle conseguenze (anche positive… ci sono sempre anche loro!) e per dare concretezza al proverbio “sbagliando si impara” che spesso suona un po’ banale e “buttato lì”.
Sbagliando troppo si impara comunque
Gli sbagli sono per loro natura un efficace feedback retroattivo, ovvero una risposta alle nostre azioni che ci consente di modificarle nella direzione giusta al fine di raggiungere l’obiettivo. Un po’ come rompere una finestra con la palla da baseball ci insegna ad aggiustare la mira al tiro successivo (scelgo proprio l’esempio del baseball visto che Jordan ha avuto anche una breve e poco brillante carriera in questo sport).
Sappiamo che i fallimenti si ripetono lungo tutto il nostro percorso, anche quando arriveremo a dei livelli di eccellenza. Molto dipende però da come si distribuiscono nel tempo. “Over and over and over again” direbbe Michael, ma se quei tiri sbagliati fossero stati 9000 consecutivi avrebbe sicuramente appeso le sue scarpe Nike al chiodo! Quando gli insuccessi si accumulano senza tregua, abbiamo l’occasione di imparare lezioni preziose proprio perché siamo spinti a farci domande particolarmente faticose, che in altre occasioni cercheremmo di evitare:
- Da dove vengono le mie convinzioni che sto attraversando un periodo pieno di fallimenti?
- C’è un fattore ricorrente a causare questa serie di insuccessi?
- Cosa mi farebbe sentire realizzatə?
Sfruttare il legame tra fallimento e allenamento
Che fa anche rima! Per raggiungere un qualunque obiettivo attraversiamo una fase di allenamento, eseguendo esercizi in modo ripetitivo e senza chiederci il perché vadano fatti in una certa sequenza: probabilmente abbiamo seguito in maniera acritica i consigli del professore (o dell’allenatore) o copiato quello che facevano i nostri compagni o colleghi. Il fallimento, con la sua energia emotiva, è in grado di rompere l’automatismo dell’allenamento e mettere in discussione tutto ciò che davamo per scontato.
All’università ad esempio, la bocciatura a un esame sarà anche considerata un fallimento agli occhi di qualcuno, ma è anche una forte motivazione per la studentessa o lo studente a capire quali aspetti del loro metodo di studio non li ha aiutati a superare la prova. D’altra parte, tu quale preferiresti tra queste opzioni?
- Passare tutti gli esami del semestre con voti che non ti soddisfano pienamente (per qualcuno potrebbe significare un 18, per altri un 24…) procedendo a pieno ritmo nella tua carriera accademica, ma con un “retrogusto amaro”.
- Fallire un esame (o anche due!) e starci male per qualche giorno, ma da lì capire cosa modificare nel tuo approccio allo studio e superare quelli successivi in modo finalmente appagante.
Nessun dubbio su cosa sceglierebbe MJ.